CONSIDERAZIONI SUL RAPPORTO ISTAT CHE PROPUGNA LA RIVOLUZIONE

Resta per me un mistero insondabile: come si possa fare politica o essere classe dirigente, e a maggior ragione governare, senza tenere presente i dati della realtà economica e sociale che l’ISTAT ci consegna ogni anno. Noi siamo il Paese della realtà percepita. Cosa importa se i migranti sono il 9% se noi percepiamo che sono il 25%, cosa importa se ci sono 25 gradi se noi ne percepiamo 47? Nulla, la realtà non conta, contano le percezioni, quindi le suggestioni, le narrazioni, il nostro sentire personale che viene elevato a regola oggettiva.

Detto questo, e con ciò manifestato il mio disprezzo per le percezioni che distorcono e mentono ed il mio amore per i dati, vediamo che Italia ci consegna l’ISTAT, la fotografia del 2019.

Soffermiamoci solo sui dati demografici perché dicono moltissimo dell’Italia, del suo stato di salute economico e sociale, delle sue speranze e delle sue paure. Intanto, dice il rapporto ISTAT: “La fecondità bassa e tardiva è l’indicatore più rappresentativo del malessere demografico del Paese. Si accentua ulteriormente la posticipazione delle prime nozze e della nascita dei figli verso età sempre più avanzate, e, tra le donne senza figli (circa il 45 per cento delle donne tra 18 e 49 anni), quelle che non includono la genitorialità nel proprio progetto di vita sono meno del 5 per cento. Per le donne e le coppie, la scelta consapevole di non avere figli è poco frequente, mentre è in crescita la quota delle persone che sono costrette a rinviare e poi a rinunciare alla realizzazione dei progetti familiari a causa delle difficoltà della propria condizione economica e sociale o per fattori di contesto”.  Qui c’è una prima fotografia che ci dice che si arriva tardi al matrimonio (o convivenza che sia) e che tardi si decide di far figli, a meno che non si sia obbligati a rinunciare per la condizione economica (precariato, sottosalario, lavoro nero, stipendi insufficienti) o per situazioni di contesto, ad esempio la legge sulla maternità e paternità che tutela poco sia per le sicurezze sul lavoro (mantenimento del livello professionale al rientro, eguale possibilità di carriera) che per il periodo di pieno sostegno economico alle donne partorienti (5 mesi a fronte dei 24 della Romania, per dire). L’EUROSTAT dimostra che “L’Italia, nel 2018, è stato il Paese Ue con il tasso di natalità più basso (il 7,3 per mille)”. Secondo EUROSTAT senza arrivi dall’estero l’Italia sarebbe destinata a dimezzare la sua popolazione a quota 30 milioni entro il 2100, scrive il Sole 24 ore, che specifica come “con l’apporto dei migranti il calo si fermerebbe “solo” a 45 milioni”. Ci stanno dicendo che nel giro di 80 anni perderemo metà della popolazione o ¼ della popolazione globale solo se c’è l’aiuto sostanziale dei migranti che già oggi costituiscono il 20% dei nuovi nati in Italia. Secondo queste previsioni metteremmo in crisi gravissima il sistema previdenziale, e con esso le pensioni, o lo renderemmo molto più costoso e meno redditizio, proprio mentre la popolazione invecchia, l’età media aumenta e le pensioni acquistano maggior peso nell’economia generale ed in quella delle famiglie in particolare.

C’è, notoriamente, chi non vuole i migranti, chi vuole che gli stipendi siano contenuti (cioè bassi), chi festeggia la precarietà del lavoro come una modernizzazione indispensabile. Chi sostiene queste teorie non si cura di valutare quali impatti possano avere nella nostra vita quotidiana, quella che siamo abituati a vivere qui e ora. Il combinato disposto di precarietà, sfruttamento e xenofobia produce danni all’intera economia del Paese ed è singolare che siano proprio quelli che si autoproclamano patriottici a sostenere queste posizioni che sono devastanti, soprattutto in un momento in cui rischiamo di subire il colpo incrociato della crisi generale causata dall’abbassamento repentino delle produzioni in Germania e dalle conseguenze della diffusione del Coronavirus che sta già creando problemi alle aziende italiane che attendono materie prime e semilavorati dalla Cina e dal Far East.

In questo quadro è evidente che chi sventola paure e le propaga a fini elettoral-propagandistici nuoce gravemente all’Italia. Anche qui, in totale dispregio dei numeri, quindi della realtà verificata. Ad esempio, i sostenitori della presunta islamizzazione dell’Italia mentono spudoratamente, non so se per cialtroneria o per ignoranza crassa. L’ISTAT, alla tabella 3.2 del rapporto relativo al 2019, riporta la composizione delle nazionalità degli stranieri residenti in Italia da cui si evince che quel timore è assolutamente infondato. Su 5.144.440 persone straniere residenti in Italia 976.689 vengono da Paesi di religione islamica. E qui si dovrebbe fare la giusta tara perché l’Italia è un Paese cattolico, ma non ci sono 60 milioni di cattolici in Italia, così come non ci sono 450.000 islamici tra i marocchini residenti nel nostro Paese. Pertanto quanto sopra va considerato come schematico e solo come dato indicativo che da solo sbugiarda il fumo dell’islamizzazione.

A queste considerazioni basate su fatti oggettivi e riscontrati va aggiunto il fenomeno degli italiani che emigrano per cercare lavoro, nel caso dei giovani, o della cospicua pattuglia di pensionati che lascia il Paese perché attratta dalla variazione della tassazione o dal costo della vita ben più ristretto. Nel solo 2018 sono stati 117mila, cifra che fa lievitare a 816mila in totale gli espatriati nell’ultimo decennio, secondo i dati ISTAT. Le cancellazioni anagrafiche dovute al trasferimento all’estero, nel 2018 sono state 157mila (+1,25 nel 2017) e quasi 3 su 4 hanno riguardato emigrati italiani. Aggiungiamoci che a fronte di 435mila nati vivi, sono stati registrati 647mila decessi, con una popolazione in decrescita di 212.000 unità.

Non si tratta solo di invecchiamento della popolazione, dato in sé preoccupante, ma di intere fette di mercato interno che vengono a mancare per consumi di ogni natura, da quelli di sopravvivenza a quelli culturali e ricreativi.

In conclusione, snocciolare anche solo questi dati ci dovrebbe aiutare tutti a comprendere meglio le necessità e le convenienze. Dovrebbe guidare chi fa politica ed ha un ruolo pubblico. Questi dati sono molto allarmanti e descrivono un Paese che rischia una crisi strutturale e di entità storica. In definitiva, e tagliando con l’accetta il resoconto finale, occorre:

  1. aiutare le famiglie a far più figli mettendo in campo politiche fiscali e del lavoro e definendo leggi a maggior tutela delle lavoratrici madri che diano il tempo e la possibilità economica di gestire i bambini, soprattutto nella primissima età. Elevare consistentemente il periodo di astensione retribuita per maternità, assegnare un congruo periodo di astensione per paternità, aumentare assegni familiari e detrazioni per i figli, rivedere l’IVA sui beni destinati alla cura dei minori sono misure che devono andare assieme ad un profondo rinnovamento delle norme sul lavoro che incentivino il part-time anche a tempo, incrementino lo stipendio netto, garantiscano certezze per il rientro nel posto di lavoro, nella mansione e nelle progressioni di carriera;
  2. diminuire radicalmente l’uso dei contratti atipici, quindi della precarizzazione di massa al fine di potere garantire anche la copertura bancaria e finanziaria dei prestiti al consumo e dei mutui per la casa. Oggi moltissimi istituti finanziari negano il credito a chi non ha un lavoro a tempo indeterminato e questo fa diminuire la possibilità di acquisti rateali con le conseguenti ripercussioni negative sul mercato interno;
  3. provare a far rientrare i giovani lavoratori e professionisti che si sono trasferiti all’estero, cominciando ad attuare veramente la tanto decantata meritocrazia, mai attuata, che è la causa prima per la quale si scappa dalle terre d’origine;
  4. attuare una politica della migrazione che ci consenta di accogliere, far risiedere e lavorare tutti i migranti che servono a sostenere il processo economico, incentivando una migrazione controllata e, per certi aspetti selettiva, anche con l’annullamento dei decreti sicurezza e con l’adozione del cosiddetto ius culturae, ossia del diritto dello studente che compie regolarmente il proprio ciclo di studi, a vedersi riconosciuta in automatico la cittadinanza italiana.

 

Il resto bisogna sconfiggerlo per il bene dell’Italia perché è resistenza miope e scellerata a provvedimenti e linee per la salvezza del nostro Paese che rischia di innescare un circuito perverso che non può che fare danni gravi e progressivamente irreparabili.